“La felicità: una direzione, una strada”. Intervista a Francesco Grandis

Quando si prende consapevolezza che la vita che si sta vivendo segua le aspettative che gli altri hanno per te, ma che non è affatto ciò che vuoi tu, per fare quel salto nell’ignoto, necessario per lasciare tutto e andare alla ricerca della felicità, ci vuole coraggio, ma poi quando la si raggiunge, si scopre una dimensione straordinaria con la quale identificarsi per ritrovare se stessi.

Francesco Grandis, scrittore, autore di “Sulla strada giusta”

Ero immerso nel torpore di chi sceglie di seguire la strada maestra, quella cioè della ordinarietà dello scorrere della vita sociale.

Avvolto nella calda coperta delle sicurezze comuni, lontano dal rischio di scegliere liberamente.

Molte delle cose che ho scoperto dopo il mio risveglio le ho in realtà “ri-scoperte”, o ricordate, perché le sapevo già ma avevo fatto finta di dimenticarle.

Che amavo la natura? Avrei potuto dirlo a sei anni. Che volevo scrivere? A dodici”.

Inizia così il mio colloquio con Francesco Grandis, scrittore veneto, autore di numerosi romanzi, tra cui “Sulla strada giusta”, nel quale racconta la sua esperienza maturata durante i suoi viaggi per il mondo.

Ingegnere elettronico, nel campo della robotica, Francesco lascia il suo lavoro e la sua ruotine quotidiana e fugge da tutto ciò che era stato il suo modo di vivere sino al momento della scelta che ha dato un risvolto inaspettato alla sua esistenza. L’insoddisfazione, il tempo che passava, nello scandire sistematico di ore, giorni, mesi ed anni, il colore opaco della quotidianità, senza sapore, lo hanno letteralmente catapultato a varcare la soglia di una realtà inesplorata, per lasciare spazio alla sorprendente scoperta di nuovi orizzonti.

Da cosa ha avuto inizio la tua ricerca della felicità? Che cos’è esattamente la felicità di cui parli nel tuo romanzo?

“La mia ricerca della felicità inizia sostanzialmente dal momento in cui mi sono reso conto di non averne, di non essere felice”.

“Quando mi sono reso conto di essere incastrato in una vita che pensavo di desiderare ma che in realtà era solo la proiezione dei desideri altrui, genitori, società, educazione… avevo il mio bel lavoro, il mio bello stipendio, la mia bella macchina, avevo tutto quello che mi avevano insegnato a desiderare e nonostante questo, sentivo la vita sfuggirmi tra le dita, senza lasciare un segno tranne quelli del tempo che passava.

La felicità quindi è diventata una direzione alternativa, non qualcosa da possedere o meno, ma una direzione da seguire, per muoversi verso una vita che avesse senso di essere vissuta.

Una vita che fosse “piena”.

Questa è la felicità: una direzione, una strada”.

Da cosa nasce l’insoddisfazione di quella vita che ti faceva sentire in trappola, quella dalla quale hai deciso di fuggire?

“C’erano molte cose che non andavano.

Prima è arrivata la convinzione di essere nel posto sbagliato: con il mio lavoro ero diventato un meccanismo di un sistema prettamente consumistico che allo stesso tempo criticavo.

Non si vive bene sapendo di essere dalla parte sbagliata del mondo.

Poi sono arrivati piccoli problemi di salute, dovuti al fatto che per lavorare mi trascuravo, e finivo per spendere i soldi che guadagnavo in vacanze per rilassarmi e medicine.

Non ha senso.

E poi è arrivata la mazzata finale, la consapevolezza del tempo sprecato, della vita che si esaurisce come lo stoppino di una candela”.

Ricordi che riaffiorano con prepotenza, quasi come a rivendicare il proprio posto in un passato che resta sempre lì, in disparte ma presente nella memoria.

“Di lì a poco è arrivata la crisi che mi ha convinto a spezzare le “catene “che mi inchiodavano al mio presente”.

Quali sono queste insicurezze e perché fuggi da esse?

“Dico sempre che non sono partito per coraggio, ma per paura.

Ho avuto paura di restare dov’ero, sapendo come sarebbe andata a finire, paura di una vita che non mi lasciava nulla tranne rughe sul viso, capelli in meno sulla testa e chili in più sulla pancia.

Ho avuto paura di dimenticare i miei sogni in qualche cassetto, o di ricordarli quando fossi stato troppo vecchio per provare a realizzarli.

Paura di tante cose, che conoscevo bene.

Fare il salto verso l’ignoto, in confronto, è stata una passeggiata, rispetto al terrore che provavo quando ho provato a immaginarmi paralizzato in altri cinque, dieci, vent’anni di quella vita”.

Parole che catturano la mia attenzione, che mi fanno riflettere sulle nostre fragilità e su quel passo in più che spaventa tanto fare, fondamentale per cambiar rotta, riprender in mano la nostra vita e viverla a pieno, mettendo da parte le aspettative sociali e familiari e dar voce invece a ciò che più ci fa star bene con noi stessi.

Portaci con te, facendoci sognare ad occhi aperti, nel viaggio che ti ha lasciato dentro tracce difficili da dimenticare.

“Ho fatto alcuni viaggi molto belli e importanti, il giro del mondo tra tutti, altri meno, ma ce n’è uno che mi è rimasto nel cuore: un viaggio solitario di due mesi e mezzo in Scandinavia.

Avevo allestito il mio fuoristrada come un piccolo camper, con dentro tutto quello che mi serviva per dormire, cucinare e persino lavorare, perché in quel periodo ero un “nomade digitale”, un lavoratore senza costrizioni di luogo o di tempo.

Ho passato le mie giornate in riva ai laghi più belli del Nord Europa, sempre dalla parte opposta al tramonto del sole così ogni sera avevo il mio spettacolo privato tra i riflessi dell’acqua.

Al mattino lavoravo al computer dal sedile passeggero; passavo il pomeriggio nella contemplazione di cose semplici, naturali; la sera era il momento più bello, quando era ora di accendere il fuoco, cucinare qualcosa per la cena e vivere nella solitudine più completa, senza per questo mai sentirmi solo: avevo la natura a farmi compagnia”.

La tua vita di oggi, da cosa differisce da quella di ieri? “Innanzitutto ho una famiglia: una compagna e un bambino di otto anni.

Vivo in Spagna, adesso, abbastanza stabilmente, ma il mio “ufficio” (ovvero la stanza in cui lavoro) è affacciato su un mare splendido.

Sono circondato da un buon silenzio e una natura che selvaggia non è, ma soddisfa a sufficienza il mio desiderio quotidiano. Viaggio di meno, ma non mi faccio mancare avventure diverse.

Non faccio più il programmatore: scrivo e seguo le attività della casa editrice che ho fondato, assieme ad altri quattro, da qualche anno, AltreVoci Edizioni.

Sto bene. Non sono meno irrequieto, ma ho più pazienza”.

Il lavoro, il ritmo frenetico della routine quotidiana, ci fanno perdere di vista le cose importanti, rubando il nostro tempo”.

Qual è la chiave per uscire da questo circolo vizioso?

“Ascoltarsi. E quando ci riusciamo, credere a quello che sentiamo.

Sono convinto che sappiamo già tante cose senza particolari percorsi di ricerca personale: che un lavoro non fa per noi, che vivere in un certo posto ci fa male, che alcune abitudini ci uccideranno…

Sappiamo già molte cose, ma abbiamo perso l’abitudine di ascoltarci e di agire in conseguenza”.

Imparare ad ascoltare se stessi è il biglietto per farci vivere in armonia e far pace con la parte più fragile di noi.

“Viaggiare mi è servito per tornare a farlo: allontanandomi da tutto e tutti, soprattutto dal “me stesso di sempre”, ho potuto incontrare il me stesso che sarei diventato e ci sono diventato amico.

Avrei potuto farlo senza muovermi da casa? Forse, ma sarebbe stato più difficile mettere abbastanza distanza tra i due”.

Alcune delle immagini descritte nel tuo libro, lasciano emergere le emozioni che suscita in te la natura.

Qual è il tuo rapporto con essa?

“Amore totale, praticamente incondizionato.

Nella natura sto bene, mi sento più sereno, come se avessi intorno uno schermo che impedisce a molti dei miei problemi quotidiani di toccarmi, e non importa nemmeno se si tratta di un bosco, una montagna rocciosa, una spiaggia o uno specchio d’acqua: basta che sia un luogo pulito, libero da rumori e presenze ingombranti.

Al contrario, negli ambienti molto urbanizzati, dove traffico, chiasso e sporco fanno da padroni, mi sento come indebolito”.

Come immagini il tuo prossimo viaggio?

“Con mio figlio al fianco, mentre insegno a lui la prudenza e i trucchetti da viaggiatore esperto, e lui insegna a me a guardare con occhi più ingenui. Non importa nemmeno molto la destinazione, ma da un po’ di tempo abbiamo in mente l’Islanda.

Credo sarà lì”.

Quali sono le incertezze che ti spaventano di più?

“Gran parte delle mie preoccupazioni riguardano la crescita di mio figlio, ma credo siano le stesse di qualunque altro padre: starà bene, crescerà sereno, riuscirò a non fargli mancare niente di essenziale?

Non sono molto preoccupato invece per me stesso: coltivo una sorta di “ottimismo realista”, per cui so che riuscirò a cavarmela, se mi impegno, da qualsiasi situazione”.

Mirella Madeo

Giornalista pubblicista ed Avvocato, disabile. Ho 50 anni e vivo a Ravenna.

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