Cicala, un piccolo paesino della provincia di Catanzaro, è ilh primo borgo amico delle demenze, un luogo dove chi soffre di demenza può continuare a vivere la propria dimensione.
Quella di Cicala è una realtà virtuosa che restituisce a persone colpite da malattie degenerative, vittime dell’emarginazione di una società che teme il confronto con il diverso, la dignità persa, a causa di una patologia, ladra di ricordi, pensieri ed emozioni. Ne abbiamo parlato con la sua ideatrice, Elena Sodano.
Elena con una delle sue ospiti
Un centro diurno quello in provincia di Catanzaro, diretto dalla dottoressa Elena Sodano, che ospita chi vive sulla propria pelle queste difficoltà, una dimensione dove ritrovare il gusto di poter fare una passeggiata, acquistare un quotidiano, fare la spesa, sedersi per sorseggiare un buon caffè in convivialità, semplici gesti di una normalità che ciascuno di essi può svolgere in totale libertà grazie al supporto di accompagnatori ed alla collaborazione “inconsapevole” di un piccolo paese dell’altopiano silano, con pochi negozietti, nel quale si respira ancora la familiarità della gente di borgata di un tempo.
Che tipo di centro è quello che dirige?
“Il centro diurno Ra.Gi. che dirigo a Catanzaro è accreditato e ospita persone con demenza e malattia di Alzheimer.
Nel 2006 abbiamo fatto la scelta di schierarci al loro fianco per tutelarne il benessere e normalizzarne la dimensione esistenziale che deve esserci, al di là della patologia che altera il loro vissuto.
Crediamo che queste persone abbiano diritto a corsie preferenziali.
Nei pronto soccorso così come nelle residenze sanitarie.
Chi soffre di demenza è una persona molto anarchica, una persona che non rispetta le regole, una persona vera, che non per questo deve essere considerata come un guscio vuoto, un vuoto a perdere, un individuo nei cui confronti non si può fare più nulla.
Al contrario, la nostra esperienza, maturata accanto a loro durante questi anni, ci ha mostrato che sono individui con tanto da dire e tanto altro ancora da dare.
Come ci si approccia con la demenza?
“Non esiste un unico modo di approcciarsi ad essa.Bisogna considerare la persona che si trova in una tale condizione, come soggetto con un proprio vissuto, esperienze, traumi, sentimenti ed affetti diversi.È questo di cui principalmente si deve tenere conto, al di là del trattamento farmacologico, che purtroppo può fare ben poco, poiché ad oggi non ci sono farmaci che possano prevenire, curare o comunque mitigare i disturbi comportamentali che la demenza porta con sé.
Ma che cos’è un disturbo del comportamento, se non un bisogno che non è stato compreso?
Sono molte le funzioni che vengono compromesse e, a parte quella primaria della memoria, ad esempio, possono esserci difficoltà di linguaggio.
È difficile soddisfare un bisogno se non si riesce a comprendere il linguaggio di chi ha una necessità, ovvero. quando una mimica non viene compresa o quando un bisogno rimane incompreso.
Quello che non bisogna fare è invece dar seguito ai “sentito dire” che aleggiano attorno alla malattia ed in principal modo nei riguardi delle famiglie lasciate da sole a gestire una patologia così crudele che hanno bisogno di informazioni corrette e di certezze, non di “polveroni” e di timori.
E quindi dinanzi ad una diagnosi di demenza, bisogna riuscire a capire cosa fare, come gestire la nuova situazione, come fare ad entrare in una relazione autentica con una persona che soffre di demenza.
Non bisogna “omologare” un soggetto ad altri suoi simili, perché ciascuno ha le sue fragilità che occorre rispettare, ma è al contrario fondamentale tener conto di avere davanti a sé una persona che ha diritto ad essere capita, protetta e percepita come “carne”e non come” oggetto”.
Da qui nasce il rispetto della persona, che tuttavia non può prescindere dalla coscienza che si ha del suo essere, ancor prima che della conoscenza della sua malattia.
Quando parlo con i familiari dei miei ospiti, cerco di far comprendere loro che la malattia non cancella, con un colpo di spugna, anni di vita condivisa, ma significa solo che a causa della degenerazione neuronale, emozioni, sensazioni, non possono essere più recuperate in maniera efficace, pur essendo comunque sempre esistenti.
In questa prospettiva, la parola d’ordine da non perdere mai di vista, è l’accettazione del proprio caro, per ciò che è, non per ciò che vorrebbero questi sia, solo così si riesce ad instaurare un rapporto diverso che aiuti a superare i numerosi momenti di sofferenza e di sconforto a cui la malattia li mette di fronte”.
Perché ti sei presa questo impegno?
“Non ho nessun caso in famiglia che mi ha spinta a farlo, come si potrebbe essere facilmente portati a credere.Forse per riuscire a spiegare il motivo della mia scelta, devo partire con il raccontare brevemente la mia vita.La mia radice è quella giornalistica, sono una giornalista professionista e lavoro per la Gazzetta del Sud, sono un articolo due, ma all’inizio della mia carriera mi sono occupata esclusivamente di sociale.Ho una laurea in lettere e filosofia ed una in psicologia del lavoro e delle organizzazioni, una specializzazione per esercitare la quale non mi sono mai abilitata, avendo avuto da sempre intenzione di fare la mia attività attuale, ossia creare i luoghi per una buona cura delle persone fragili.
All’università di Camerino ho conseguito la laurea triennale in scienze della comunicazione e successivamente ho seguito un corso quadriennale di terapia espressiva corporea.
Ritenendo che una buona formazione sia indispensabile per poter essere una buona imprenditrice, ho inoltre fatto un master di secondo livello in management e governance sanitario ed un altro in neuro psicologia clinica.Inizialmente non avrei mai pensato di occuparmi di demenza, ho sempre scritto, scrivevo, scrivevo tanto.
Sino a quando, nel 2002, è nata l’Associazione “Ra.Gi.”, acronimo di Rachele e Giuseppe, che sono i nomi dei miei figli, e nel 2006 il Ministero del Lavoro ci ha approvato un progetto per la realizzazione dei primi “Cafè Alzheimer”, spazi di incontro e di ascolto, dove malati e familiari possono trascorrere momenti in spensieratezza, confrontando le loro esperienze, e da li è partito tutto.
Tutto quello che è stato fatto e creato, da quegli esordi sino ad oggi, è stata davvero una cosa fantastica.
Nel 2017 ho scritto un libro, “Il corpo nella demenza”, edito dalla Maggioli, dal quale nasce la terapia espressiva corporea integrata, oramai conosciuta in tutta Italia, l’unica che, grazie a supporti psicologici, anatomo funzionali e neuroscientifici, riesce a definire i limiti corporei della persona con demenza, perché se è vero che in essa si spengono i neuroni, lo è altrettanto che ciò che resta intatto è un’alfabetizzazione del corpo attraverso cui ci è possibile capire quanto questa vuole dirci, permettendoci di soddisfarne i bisogni”.
“A pensarci bene però un’esigenza personale che mi ha portata ad intraprendere questo percorso, forse c’è.
In realtà, quando ho conosciuto queste persone, che non sono assolutamente di età avanzata, perché la demenza non va confusa con quella senile, essendo invece questa una vera e propria malattia patologica, ho iniziato a capire che avere a che fare con questo disturbo non significava rapportarsi esclusivamente a persone anziane, in quanto la demenza può colpire dai quarant’anni in su e ad acquisire consapevolezza che essa era poco rappresentata nel nostro Paese, in quanto la nostra è una società che emargina e nasconde il diverso, e che per questa ragione, il prezzo pagato dai malati, spesso etichettati come nullità, e dai loro familiari, costretti a subire umiliazioni e profanazioni nella loro essenza più vitale, era davvero troppo alto da sopportare.
La paura ed il “terrorismo” che ci sono attorno a questa patologia, fanno sì che venga annullata l’identità sociale di persone giudicate superficialmente come inette
È stato proprio tutto quello che vedevo intorno a me a farmi comprendere che dovevo e volevo fare qualcosa per cambiare quella situazione.
Ecco perché nascono i punti di ascolto, i centri diurni, di cui ne apriremo uno a Miglierina ed un altro a Catanzaro, stiamo per aprire CasaPaese, e stiamo facendo inoltre operazioni anche in altre regioni d’Italia, tutto con un solo obiettivo, cambiare il modo di pensare alle persone con demenza”.
Che cos’è il Progetto CasaPaese?
“CasaPaese nasce a Cicala, ai piedi della Sila, e nel 2018 è diventato il primo in Calabria ad essere riconosciuto come borgo antico della demenza, composto da pochi abitanti ed appena sette piccoli negozi, botteghe che accolgono per le strade i nostri ospiti che, accompagnati dagli operatori, se ne vanno a spasso liberamente per i vicoli del paese, sempre con la finalità di umanizzare la vita delle persone con demenza, che così hanno la possibilità di fare una passeggiata, acquistare il giornale, fare una piccola spesa o comprare una piantina da portare a casa, senza dover subire il giudizio altrui.È un progetto questo, che parte da una comunità alloggio per dar vita ad una casa residenziale, attraverso la riproduzione di un ambiente di vita per eccellenza, immersa in un vero e proprio paese, che diviene nucleo di convivenza e di condivisione pubblica.
Un obiettivo nella nostra mente ancor prima che il COVID entrasse a far parte della nostra quotidianità, messo a dura prova dai lunghi mesi di lockdown, durante i quali, nonostante la pandemia, in quanto servizio essenziale, abbiamo continuato a svolgere regolarmente la nostra attività, un’intenzione che ha tratto da quei giorni di estrema difficoltà la forza e la determinazione per poter essere realizzato.
Una CasaPaese in cui grazie alla presenza di operatori adeguatamente formati, le persone con demenza potranno proseguire il loro percorso di vita, nel rispetto delle loro aspirazioni, dei loro pensieri, delle loro emozioni, delle loro abitudini, favorendo l’instaurazione di relazioni umane autentiche e profonde.
La cosa importante da dire è che sarà uno spazio fisico che sia principalmente libero, dove potersi muovere liberamente, in sicurezza, ripristinare il rapporto con la natura, potersi sedere su una panchina per leggere un giornale, mangiare al ristorante di Totò e Peppino, ci sarà un piccolo supermercato, cercheremo di eliminare le regole che ci sono solitamente nelle Rsa, partendo dai vincoli orari.
Una dimora nel rispetto totale della persona, fuori dagli schemi e lontana dalle solite regole istituzionali, in cui sentirsi ancora a casa, perché le persone fragili hanno il diritto di essere se stesse”.
“I corridoi della CasaPaese riprodurranno le strade di Cicala, con una pizzeria, un fioraio, un’edicola, un piccolo alimentari, ci sarà inoltre un meraviglioso solarium, il cinema, creeremo delle piccole piazze, sarà insomma un vero e proprio borgo, immerso nel verde, con aiuole, alberi particolari, animali domestici, spazi aperti dove si praticherà l’orto terapia.
Le stanze della nostra casa verranno abbellite con oggetti personali e familiari di ciascun ospite, proprio per consentirgli di non tagliare le radici con la loro vita e con gli affetti più cari”.
“CasaPaese non ha alcun finanziamento pubblico, ma gode della partecipazione volontaria di quanti vorranno contribuire alla sua crescita, essendo possibile, già dallo scorso giugno, grazie alla disponibilità di Intesa San Paolo, fare delle donazioni, assolutamente libere, attraverso la piattaforma “For Funding” della stessa banca, una modalità che ci ha permesso di diffondere il nostro messaggio in tutta Italia.
CasaPaese ha sostenitori su tutto il territorio nazionale e c’è anche chi offre la propria professionalità allo sviluppo del progetto, come Luciana, architetto di Torino, che sta facendo da trade union tra tutte le persone che ci stanno aiutando ad organizzare il tutto”.
Perché si ha paura della demenza e dell’Alzheimer?
“Quando ci si trova dinanzi alla malattia di un proprio caro, ci si proietta inevitabilmente in quella sofferenza e attraverso questa viviamo la nostra fragilità.Una ” simbiosi” che ci fa scoprire emozioni, stati d’animo, sentimenti, forza, debolezza, problemi di cui altrimenti non saremo mai potuti venire a conoscenza.
Quando si tratta di Alzheimer o di altre forme di demenza, questa conoscenza sembra però essere scartata.
La nostra società non vuol sentire sulla propria pelle le sue fragilità, rifiutandosi di voler ammettere la propria inadeguatezza a prendersi cura di queste persone nella maniera più semplice.
Persone che vivono in una dimensione priva di schemi e di regole, con continue esigenze che non si possono spacchettare, le quali non suscitano, neanche tra i familiari più amorevoli e pazienti, sentimenti come tenerezza, compassione e indulgenza, ma che al contrario costituiscono un “intoppo gestionale” che snatura la visione stessa di persona.La comunità teme questo, l’esser squilibrata da persone troppo diverse ed io non posso accettare che queste non possano vivere.
Non accetto che questa società trasformi l’essere umano in risorsa che vale soltanto perché ci serve, non riesco ad accettare che una comunità le condanni al destino di “scarto”, perché queste persone in fondo respirano la nostra stessa aria.
Falliti ed impotenti non sono loro, bensì la normalità delle persone che non fa rete sociale per la costruzione di quanto necessario per consentire a questi di poter condurre una vita normale.
Quella delle persone con demenza è una sfida umana che interroga principalmente i cosiddetti cristiani, coloro che tentano di costruire un mondo apparentemente più felice e più sano, ma ciò non avviene e noi ci accorgiamo ogni giorno dell’ipocrisia sociale che c’è in quest’universo”.
Avete incontrato degli ostacoli nella realizzazione di questo e degli altri progetti?
“Essendo nati, anche come centro diurno, senza nessun finanziamento pubblico, a parte piccoli contributi occasionali, se non si ha possibilità di fruire di un sostegno a lungo termine per la cura di individui con demenza, le difficoltà da superare sono. Indubbiamente maggiori.
Sono le famiglie a farsi carico di una piccola retta mensile da pagare per garantire un personale multidisciplinare, composto da psicologi, animatori, OSS, OSA, abbiamo un pulmino che al mattino va a prendere i nostri ospiti presso le loro abitazioni, un’equipe a 360 gradi fatta da professionisti che, non trattandosi di un’associazione di volontariato vanno retribuiti.
Non hanno mai trovato dei locali adatti da poter destinare al nostro progetto e dunque, dobbiamo sostenere autonomamente l’affitto della sede del centro.
Rinuncio spesso al mio stipendio, ma preferisco lo abbiano i miei operatori, perché sono loro a fare la vera differenza, io in fondo scegliendo di fare l’imprenditrice non ho il diritto di lamentarmi”.
Qual è la storia dei suoi ospiti che le è rimasta più impressa?
“Ogni giorno incontriamo persone con storie diverse le une dalle altre, ma voglio condividerne una con i vostri lettori che mi ha fatto capire molte cose.
Un giorno giunse da noi una signora, accompagnata dai suoi figli, in grossa difficoltà perché non riuscivano a gestire l’aggressività e le ripetute crisi di pianto della madre.
Ogni mattina ci costringeva a toglierci le scarpe, era l’unica cosa che riusciva a darle serenità.Le sistemava dinanzi a sé e stava delle ore a parlare con esse ed a piangere per tutto il tempo.
I figli ci dissero che quello era lo stesso comportamento che la loro mamma aveva anche a casa, ma non riuscivamo a comprendere la ragione di quei gesti.
Attraverso il racconto della cugina più grande della donna, vittima peraltro di violenza da parte di suo marito, è stato possibile ricostruirne il passato, e ricollegare quei comportamenti ai suoi sette aborti.
La stessa, infatti, di dieci gravidanze era riuscita a portare a termine solo tre di esse.Questo dà conferma di quanto sia importante conoscere il passato di una persona, perché la demenza riporta indietro nel tempo, facendo rivivere traumi di una vita che soltanto chi ha vissuto può conoscere.
Una pillola non può sedare un ricordo o farti tacere, mentre nel cuore della notte senti che nell’altra stanza c’è tuo figlio che sta piangendo, ed il tuo istinto di madre ti spinge ad alzarti e ad andare ad allattarlo.
Un farmaco non può cancellare un istinto, un pensiero, un ricordo.
Questa, come tante altre storie di persone incontrate nel corso della mia vita, mi hanno insegnato molto.
Ho sentito tante parole farfugliate, frasi senza senso e, nella mia umiltà, ho sempre cercato di capire la loro esigenza, comprendere ciò che magari con un gesto volevano dirmi”.
Quest’anno ricorre il trentennale dalla promulgazione della Legge Quadro del 5 febbraio 1992 n.104, crede sia ancora una legge valida?
“ È una legge che non è legge, che non rispetta le persone con disabilità, con difficoltà di relazione e di integrazione.
È una normativa a cui non credo, perché il diverso ossia tutto ciò che non rispetta le aspettative viene messo da parte e deve fare a cazzotti con tutto e con tutti per l’affermazione di un proprio diritto e non penso questo sia giusto.
Basti pensare alle numerose barriere architettoniche presenti nelle scuole, negli ospedali, ovunque, tutto ciò che è diverso non viene accettato.
Questa è una società che non è assolutamente dalla parte della semplicità umana, per cui la tutela di un diritto, tutto quello che dovrebbe essere una norma, diventa difficile da realizzare.
Noi non sappiamo niente di Gesù Cristo, andiamo in chiesa, lo preghiamo, ma non ne conosciamo l’etnia, non sappiamo se avesse o meno una disabilità o se fosse un diverso, tuttavia ci sediamo alle cattedre di coloro che sanno la verità assoluta, nella presunzione di conoscere le esigenze ed i diritti di persone che hanno qualsiasi forma di fragilità”.
Cosa si porta a casa la sera alla chiusura del centro?
“Lungo il tragitto di casa porto con me la speranza di aver tracciato nell’anima e sulla pelle delle persone con demenza, tante emozioni che le facciano ritornare l’indomani con il sorriso sulle labbra, felici di ritrovarci, con la consapevolezza di riuscire a fargli capire che li siamo tutti loro amici. Mi porto dietro solo la speranza di aver fatto il possibile per farli star bene”.
Tratto da MEDORA Magazine