Ludovica, nome di fantasia, combatte da tempo per garantire al figlio, oggi trentaquattrenne, con una disabilità motoria che gli lascia pochi margini di autonomia, un futuro che gli consenta di continuare a vivere la propria vita, anche quando lei non ci sarà più.
Il male che non le dà tregua da anni ormai e le continue cure oncologiche a cui si sottopone periodicamente, l’hanno indebolita nel fisico, costringendola ad affidare Leonardo, suo figlio, ad una comunità socio sanitaria presso la quale vive già da tempo.
A quattordici anni, questi ha avuto un grave incidente stradale, al quale hanno fatto seguito lunghi mesi di coma.
A detta dei medici sarebbe rimasto in un letto a vita, ma invece dopo tanto lavoro, è riuscito ad uscirne fuori con un paio di stampelle.
“Non nego le difficoltà che ha dovuto superare, legate soprattutto alla memoria breve termine, un disturbo cognitivo che permette di trattenere una quantità limitata di informazioni per un breve periodo di tempo, oltre a quelle relative ai continui cicli di riabilitazione in diversi ospedali, Ferrara, Parma, Castellanza ed ai numerosi interventi a cui si è dovuto sottoporre”.
Terminato il percorso scolastico, affinché Leo potesse avere la possibilità di trascorrere un po’ di tempo fuori di casa, Ludovica decise di inserirlo in un centro socio educativo.
Abitando in periferia, priva di attrattive per ragazzi della sua età, quella le sembró la scelta migliore per lui.
Rimase lì qualche anno, poi entró in una comunità, con scarsi risultati.
“Dalla mia esperienza ho capito che mio figlio, essendo in carrozzina, è difficile da collocare e che per quelli come mio figlio non ci sono le stesse opportunità che ci sono invece per le altre persone con disabilità” – asserisce Ludovica-.
“Ho pensato persino di affittare un mini appartamento in paese, con un tutor, di cui avessi piena fiducia, che se ne prendesse cura.
Conosco educatori che sono angeli, ma spesso lavorando per le cooperative sociali, non sono disponibili a svolgere un servizio di questo genere.
Ad oggi –continua – Leo è in una comunità socio sanitaria.
Sono bravi con lui, ma non è un “vestito a misura di mio figlio”.
Per via del modesto risarcimento ottenuto per l’incidente di cui è rimasto vittima, che fa reddito, la retta comunale da elargire per la permanenza in struttura, supera i 1.500 euro mensili.
Il comune si limita esclusivamente a chiedere soldi per integrare la retta.
Mio figlio avrebbe bisogno di fisioterapia, è fondamentale per lui il movimento, ma riesce a farla solo due ore a settimana.
Infatti, ultimamente è aumentato di peso, con un rallentamento delle sue funzioni motorie molto evidente.
Non mi abbatto e continuo a cercare, come tutte le mamme, desidero il meglio per mio figlio.
Porto ancora pazienza, sono una malata oncologica, abito in campagna, per mio figlio qui c’è poco.
Nel nostro comune – prosegue Ludovica – ci sono tante case dismesse, ma nessuno si preoccupa di sistemarle e fare qualcosa per il dopo di noi.
Nella comunità stessa che ospita mio figlio, ci sono anche piccoli appartamenti ma non si è mai neppure provato ad inserire anche Leo in questi progetti.
Mi duole constatare inoltre la totale assenza dell’associazionismo locale che non fa assolutamente nulla per promuovere progetti di vita indipendente per questi ragazzi.
Persino ANFFAS, associazione di punta nell’attivismo sulla disabilità, anziché essere a fianco di noi famiglie con persone disabili a carico e sollecitare gli enti pubblici a mettere in atto soluzioni concrete per “il dopo di noi”, che restano forse solo sulla carta, rimane inspiegabilmente inerme dinanzi a talune situazioni”.
La storia di Ludovica è quella di tutte le mamme che si battono per il futuro dei loro figli.
Un avvenire ancor più incerto quando si è consapevoli della disabilità del proprio bambino.
Sul piano normativo è tutto un idillio di buoni propositi, ma poi si è costretti ad aprire gli occhi ed a lottare contro i mulini a vento della realtà.
Le persone con disabilità hanno gli stessi diritti umani di tutti gli altri cittadini e questi sono perfino connessi alle libertà di ciascuno di essi, recita la Convenzione ONU del 2006.
Belle parole, a cui non corrispondono però i fatti.
È necessario realizzare progetti di vita indipendente, personalizzata o piccole realtà abitative di co-housing, affinché le persone con ridotta autosufficienza, o in situazioni di gravità, possano intraprendere un percorso di autoderminazione e di emancipazione dal proprio nucleo familiare, anche qualora queste decidano di farlo continuando a vivere al suo interno, come previsto dalla Legge n. 112/2016 (legge dopo di noi).
Una bella prospettiva anche questa, se solo fosse effettivamente messa in pratica.
Peccato che però ancora una volta, la quotidianità sia ben diversa dalle promesse del legislatore.
Enti pubblici sempre più in confusione, che non comunicano tra loro e fondi europei stanziati da tempo, destinati ai progetti sul dopo di noi, da anni giacenti nelle casse di Regioni e Comuni, che rischiano di non poter essere più utilizzati e perciò di ritornare al mittente.
Un vero spreco di denaro, se si pensa a quanti progetti di vita, attraverso cui si potrebbe invece offrire alle persone che affollano le numerose strutture socio assistenziali sparse nel nostro Paese, la possibilità di poter abitare in alloggi residenziali con ampi margini di crescita e di autonomia.
Si è ancora molto lontani, malgrado in alcune regioni italiane vi siano già delle esperienze in ambito di progettazione conforme a quanto normativamente previsto, dal dare piena realizzazione alle finalità della legge 112/2016 e dalla destituzionalizzazione cui aspira l’Onu, garante dei diritti umani delle persone con disabilità.
Fonti:
https://www.esteri.it/mae/resource/doc/2016/07/c_01_convenzione_onu_ita.pdf
https://www.dopodinoicorreggio.it/doc/legge112-22-giugno-2016.pdf