Incontro con Laura Rampini: “non posso fare tutto, ma voglio fare tutto ciò che posso”

Intervista, quella a Laura Rampini, prima paracadutista paraplegica al mondo, realizzata qualche anno fa, che voglio riproporre, per ridare fiducia a chi sta affrontando una difficoltà inaspettata e dire loro di non mollare ma di perseguire i propri sogni.

In questa storia protagonista è la voglia di farcela a tutti i costi, una volontà che, nonostante i numerosi ostacoli da superare, ha avuto la meglio su tutto.

Il coraggio e la tenacia di una donna che è ripartita da zero, ritrovando la forza per continuare a vivere e realizzare un sogno, il suo sogno, malgrado un evento traumatico improvviso ne abbia cambiato per sempre l’esistenza.

Laura Rampini: prima paracadutista paraplegica al mondo

“Scusa se ti parlo tramite messaggio, ma sono in procinto di partire, per portare il teaser del mio cortometraggio in un tour che prevede 14 tappe in tutta Italia.

Essendo consulente del progetto “Liberamondo”, ormai da 10 anni, mi reco nelle varie unità spinali del nostro Paese, ovvero negli ospedali che accolgono ragazzi e ragazze che, a causa di un incidente, di un tuffo o di un trauma di qualsiasi natura, abbiano subito una lesione midollare, dicendo loro che anch’io ho pianto, ho sofferto, mi sono arrabbiata, ma vivo, perchè anche su una carrozzina si può vivere.”


Con questo messaggio vocale ha inizio il mio incontro con Laura Rampini, prima paracadutista paraplegica al mondo, protagonista del cortometraggio “Normabili” diretto dal regista ravennate Gerardo La mattina.


Laura è fondatrice del progetto “Liberamondo” nato, come lei stessa tiene a dire, per abbattere le barriere sociali e culturali, ben più radicate di quelle architettoniche, progetto questo che, attraverso sport e viaggi per disabili, si propone di veicolare il messaggio che nulla è impossibile.

Iniziamo la nostra chiacchierata chiedendole come è nata la sua passione.

Hai incontrato degli ostacoli per coltivare e realizzare il tuo sogno?


“Ne ho incontrati tanti, ma i sogni sono la linfa della nostra vita e, per quanto questi possano essere numerosi e ci appaiano vette insormontabili da valicare, è sempre giusto e coraggioso perseguirli.

Ho trovato difficoltà, in quanto essendo la prima al mondo, quando ho espresso la volontà di voler fare paracadutismo, ovviamente mi han preso tutti per pazza.

Poi c’era la paura di rischiare insieme a me, perchè di fronte a situazioni mai sperimentate piuttosto che impegnarsi a conoscerle, si preferisce dire di no.

Ho trovato un paracadutista che era uno dei piloti tandem che prendevano parte alle manifestazioni che io stessa organizzavo, che mi disse: guarda, io non voglio tarpare le ali al tuo sogno, non posso neanche dirti che non ci riuscirai, anzi, ma lo vedo improbabile, visto che non c’è nessuno al mondo, però voglio provare.

Laura insieme al suo istruttore di volo

Ed io gli risposi: preferisco rimanere male per non riuscire a realizzare il mio sogno piuttosto che avere il rimpianto di non aver fatto un tentativo in tal senso”.

E poi? Quali altri ostacoli ci sono stati prima di raggiungere il tuo traguardo?

“Abbiamo intrapreso un percorso, durato un anno e mezzo, al termine del quale, quando eravamo finalmente pronti, dopo aver eseguito le prove al tunnel dell’aria, i tandem fatti ed i numerosi test da effettuare, è sorto un altro ostacolo da superare, ottenere un certificato medico di idoneità, indispensabile per poter fare un corso di paracadutista, che ti permette poi di avere l’assicurazione, certificazioni entrambe obbligatorie.

Inizialmente mi dissero che non avrei mai trovato un medico che mi avrebbe rilasciato un’attestazione simile, in quanto disabile, non esistendo per lo più un corso per paracadutisti disabili.

Interpellati vari specialisti, mi rivolsi quindi all’Asl di Perugia – continua a raccontarmi Laura –.

Andai in una di quelle grandi strutture, dove fanno solo visite mediche sportive, stetti lì due giorni, mi sottoposero a qualsiasi tipo di esame clinico.

Feci vedere ai sanitari tutti i video delle prove da me eseguite sino ad allora, ed alla fine il medico mi disse: “non posso che rilasciarti il certificato, visto che, secondo me, sia dal punto di vista fisico che soprattutto da quello morale, sei pronta e per me ce la puoi fare.

Mi metto anch’io in gioco con te”.

Così sono arrivata alla fine del percorso, a realizzare il mio sogno”.

Qual è la causa della tua disabilità?

“Sto in carrozzina a causa di un incidente stradale avvenuto il 20 gennaio del 1995.


Avevo 22 anni, un figlio di quattordici mesi Luca, che adesso ha 26 anni.


Da lì a tre anni dall’incidente è nato Nico, che oggi ha 21 anni.


Dopo sette giorni di coma, al mio risveglio, la diagnosi è stata una doccia fredda, perchè un esito irreversibile come questo è una sentenza senza appello, alla quale ti devi adeguare, imparando a conviverci, e per vivere bene devi veramente ritrovare la bellezza di te stessa e delle cose che fai, anche con le difficoltà di una carrozzina”.
Che sensazioni hai quando indossi il tuo paracadute? Che cosa rappresenta “lui” per te?
“Volare è qualcosa che hai dentro, con il volo ho un gran feeling, è una cosa che ho sempre fatto e che amo da sempre. Essendo uno sport estremo, richiede carattere, ci vuole infatti freddezza per reagire alle situazioni di pericolo, ma è comunque qualcosa di incredibile.

La libertà del volo, vedere l’infinito, sentire mille suoni, ma non sentirne nessuno, udire solo il suono delle emozioni, vedere al di là di tutto ciò che osservi quando sei a terra, e poi non ci sono barriere architettoniche.

In aria volo, come volano tutti gli altri, per me è la più grande sensazione di libertà che si possa sentire”.


Da cosa nasce il progetto “Liberamondo” di cui sei fondatrice?


“Il progetto in realtà nasce da una mancanza che ho avuto ai tempi dell’incidente.

Ventiquattro anni fa, infatti, nelle unità spinali davano priorità alla riabilitazione fisica piuttosto che mirare all’autonomia della persona, aspetto invece oggi privilegiato.

La degenza per chi ha una lesione midollare prevede tempi di ospedalizzazione molto lunghi.

Io ho fatto un anno di ospedale e lì è tutto perfetto, è tutto facilmente accessibile, ma la vita fuori è un’altra cosa.


A me è mancato tanto qualcuno che mi dicesse, guarda che tu puoi fare questo, questo e quest’altro ancora, tu adesso stai così ma vedrai che avrai una vita normale.

Ho dovuto invece imparare da sola a capire quali fossero le mie capacità e le mie potenzialità.

È questa la ragione per cui ho deciso di mettere la mia esperienza al servizio delle persone ricoverate nelle unità spinali, per dire loro che io non sono un supereroe, e che se ce l’ho fatta io possono farcela anche loro.

La nostra vita è un compromesso da quando ci svegliamo al mattino e ci mettiamo in carrozzina, a quando andiamo a dormire, è fatta di lacrime e sorrisi, come lo è per tutti.

Io dico sempre, sì io ho una carrozzina, ma chi è che non ne ha una? Chi è che non ha una sofferenza nel cuore? E chi può dire che la mia carrozzina sia più pesante di un’altra, di quella che non si vede?

Bisogna affrontare con un sorriso le prove a cui la vita ci sottopone, spesso molto più grandi delle nostre capacità di farvi fronte, ma la forza per superarle e venirne fuori, è dentro di noi, dobbiamo solo trovare il coraggio di scoprirla in noi stessi, perchè poi le soddisfazioni che otteniamo dalla vita non hanno paragoni”.


Qual è il tuo prossimo obiettivo?


“Il mio prossimo obiettivo è il progetto “Normabili” che abbiamo già iniziato.

L’otto marzo scorso c’è stata la presentazione in Comune, tra giugno e luglio inizieremo le riprese del corto e da settembre questo parteciperà a tutti i festival nazionali ed internazionali. Poi desidero lanciare qui un messaggio, che è anche il mio motto: non posso fare tutto, ma voglio fare tutto ciò che posso”.


C’è qualcosa che vorresti dire a chi si arrende alla propria disabilità?


“Credo che quando accade un evento che cambia per sempre la tua esistenza e ti trovi da un giorno all’altro su una carrozzina, sia normale soffrire, piangere, disperarsi, è naturale che ci sia un periodo di “elaborazione del lutto” durante il quale si prende consapevolezza della propria nuova condizione, ma poi si deve guardare con ottimismo al futuro.

Quando ho avuto l’incidente, non vedevo nessuna luce nel futuro, il presente era impossibile da vivere, e pensare al passato mi provocava soltanto dolore, perchè rappresentava qualcosa che non potevo più avere.

Piano piano, però un giorno mi accorsi che stavo iniziando a progettare ed a sognare di nuovo.

In quel preciso istante ho realizzato che quel presente così impossibile da vivere, non era più tanto impossibile, perchè lo stavo vivendo con leggerezza e quel passato che un tempo mi faceva soffrire, era divenuto il mio scrigno dei ricordi, tesoro di una vita vissuta senza rimpianti.

Il tempo che perdiamo a piangere e a compiangerci, non lo avremo più indietro, è tempo perso.

A chi sta vivendo un momento buio, voglio dire di non arrendersi, ma di vivere intensamente qualunque sia la sua condizione, perchè la disabilità non è una diversità ma una condizione”.

Mirella Madeo

Giornalista pubblicista ed Avvocato, disabile. Ho 50 anni e vivo a Ravenna.

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