La disabilità, un uragano che mi ha fatto rinascere a nuova vita

Sabrina è una donna di mezza età con una vita come tante, fino al momento dell’incidente di Davide, suo marito, che le ha fatto conoscere la diversità, spingendola in un baratro che l’ha letteralmente annientata, come donna e come moglie, sino a farle desiderare di smettere di vivere.
Ma un giorno……

Ero soddisfatta di ciò che ero diventata.

Dopo anni di studio, ero finalmente architetto e, quando, con mio marito, riuscimmo ad aprire una nostra attività commerciale, per me è stato un po’ come aver coronato un sogno.

Io e Davide ci siamo conosciuti quando ancora frequentavo l’università, lui faceva il servizio di leva.

Il classico incontro organizzato da amici comuni, una serata trascorsa insieme e poi è scoppiata la scintilla dell’amore.

Ci siamo sposati nel novantaquattro, un matrimonio che desideravamo entrambi da tempo, il nostro sogno.

Davide e Sabrina il giorno del loro matrimonio

Non avendo avuto bambini, abbiamo investito le energie nella realizzazione di un negozio di mobili, un’attività che ha rappresentato, per qualche anno, la nostra massima aspirazione professionale.

Tutto scorreva come sempre, ma il quindici agosto del 2007, la disabilità ha fatto irruzione nella nostra vita, cambiandola per sempre………

Non dimenticherò mai le ultime parole di Davide prima di tuffarsi in quel lago, a Manerba del Garda, un luogo caro della sua infanzia, che perciò conosceva bene, dove avevamo trascorso l’intera giornata di ferragosto in barca, in compagnia dei nostri amici.

Quando a tarda sera vollero fare il bagno di mezzanotte, Davide fu uno degli ultimi a tuffarsi.
Prima di farlo mi disse di essere soddisfatto di tutto ciò che la vita gli aveva regalato sino ad allora e che non poteva desiderare di più di quanto non avesse già.

Parole che oggi suonano come un presagio di quanto di lì a poco sarebbe accaduto.

Uno scherzo del destino che, come un uragano ha scombinato i pezzi del puzzle della nostra esistenza, facendosi beffa di noi.

Quando Davide riemerse dall’acqua avverti immediatamente un tremolio e faceva difficoltà ad allacciare il cinturino del suo orologio.

Non è stato un tuffo esagerato il suo, lo aveva fatto tante volte prima di allora, ma qualcosa quella notte è andato storto e dopo pochi minuti dalla sua emersione si trovò in un’ambulanza che lo portò al pronto soccorso di Desenzano.

Quando riuscii a raggiungerlo in ospedale, mi infuriai con i sanitari che gli avevano detto, a muso duro, che non avrebbe mai più potuto camminare.


Lo sentivo urlare il mio nome, in preda alla disperazione, la stessa, che non sapevo ancora sarebbe diventata la mia compagna per tanti anni.

Una rabbia che non svanì, neppure, come speravo che fosse, quando quella terribile diagnosi mi fu confermata dal primario: tetraplegia traumatica cagionata dalla frattura di due vertebre cervicali con lesione al midollo spinale.
Una sentenza senza appello per Davide, che sarebbe rimasto paralizzato dalla testa in giù, per sempre.


Continuavo a ripetere a me stessa che certe cose accadono solo nei film, ma purtroppo quella non era una finzione, era realtà.

Il mattino successivo fu trasferito all’ospedale di Sondalo per un intervento urgente, in quanto era assolutamente necessario procedere all’inserimento di una protesi a livello cervicale.

Rimase in quell’ospedale fino a metà settembre ed in seguito è stato trasferito al Niguarda di Milano.

Questo è stato per me un grande sollievo, poiché a Sondalo ero la sola a potergli stare accanto, mentre a Milano avevo anche il supporto dei miei suoceri.

Ero una donna straziata dal mio lutto, avevo perso mio marito che a seguito dell’incidente è diventato un’altra persona.


Non mi riferisco alla sua disabilità fisica, a quella puoi passarci tranquillamente sopra, ma al suo cambiamento come persona.

Non accettava la sua nuova condizione, era sempre triste, aveva completamente perso la voglia di vivere e per me questo rappresentava un ulteriore macigno di cui farmi carico.

Quando si dice che un caregiver deve vivere per due, è vero, è proprio così, in più ho dovuto sopportare le critiche di coloro che mi accusavano di non voler accettare il sostegno di quanti al momento avrebbero potuto darmi aiuto.

Durante i mesi di ricovero in ospedale, trovandosi in una struttura “ovattata”, nella quale tutti gli stavano accanto, Davide non aveva ancora avuto modo di prendere realmente coscienza delle tante difficoltà che avrebbe presto dovuto affrontare fuori di li.

Invece io mi sono resa immediatamente conto che niente sarebbe stato più come prima.

Ho dovuto ristrutturare casa per adattarla alle esigenze di una persona con disabilità, oltre a dovermi occupare della chiusura del nostro negozio.

La cosa però per me più gravosa è stata l’avermi chiesto di accompagnarlo nel percorso terapeutico, perché la mia presenza era per lui un motivo in più determinante per il suo recupero riabilitativo.

Tutto questo non mi ha lasciato la possibilità di elaborare il mio lutto e di vivere il dolore che mi lacerava il cuore.

Quando andavo in ospedale, soffocavo la mia sofferenza, camuffandola dietro grandi sorrisi per infondergli coraggio e dargli conforto, ma dentro ero devastata.

Tornavo a casa, mi buttavo sul letto e piangevo, rimanendo spesso a digiuno.

Più di una volta ho pensato di farla finita, ma il pensiero che avrei dato un dolore a lui, che se ne sarebbe fatto una colpa, ed ai nostri familiari, mi ha fatto desistere dal farlo.

È stato un momento molto difficile e quando Davide è tornato a casa, la situazione è peggiorata ulteriormente.

Si è reso conto per la prima volta dei numerosi ostacoli che doveva superare, aveva continui cali di pressione e quindi aveva spesso bisogno di stendersi sul letto.

Non sapevo più cosa fare, ero piena di sensi di colpa, perché avevo bisogno anch’io di una vita normale, di uscire, ricominciare a frequentare i vecchi amici, di fare cose che non riguardassero il mondo della disabilità, al contrario di lui che voleva vedere solo gli amici che aveva conosciuto durante i mesi di degenza in ospedale.

Per cinque lunghi anni la nostra vita è trascorsa così.

Sono diventata la caregiver di mio marito, sia perché economicamente non potevamo permetterci altro sia perché non volevamo inserire una terza persona all’interno della coppia.

Sino al momento in cui ho compreso di non voler più soffrire, anche perché ad un certo punto non riconosceva tutto quello che facevo per lui, e ho cercato di spegnere tutti gli “interruttori emozionali” vivendo come un automa, stancandomi il più possibile per arrivare a sera esausta e cercando di distaccarmi più che potevo da quella che per me era una situazione di profondo dolore.

In quel periodo ho anche accettato un lavoro che non c’entrava nulla con ciò per cui mi ero tanto impegnata sino ad allora, buttando ancor più in basso la mia autostima, nella speranza che Davide potesse ritornare a lavorare.

La svolta decisiva, quando il nostro rapporto era ormai giunto al capolinea, è stata quando abbiamo deciso di partire per trascorrere un weekend a Nizza, un luogo dove nessuno poteva farci domande, non ne potevo più della curiosità della gente, che mi compativa per ciò che stavo facendo.


Ricorderò per sempre quella domenica di giugno.

Passeggiavo, all’inizio dell’alba di un nuovo giorno, si vedeva appena, ma l’esser sola nel buio intorno a me, non mi spaventava, al contrario ero rassicurata da quella quiete che, da tempo ormai, non riuscivo più a sentire dentro di me.

Nell’avvicinarmi al promontorio della promenade, scorsi in lontananza dei tendoni bianchi.

Avanzai, incuriosita dallo scoprire di cosa si trattasse e vidi che c’erano tanti atleti con la muta che aspettavano che il mare si ingrossasse, per tuffarsi tra le sue onde.

Quella a cui stavo assistendo era la famosa ironman di Nizza, una gara di lunga distanza di triathlon.

Ero così emozionata nell’osservare quelle persone tuffarsi in mare e cominciare a nuotare, da avvertire immediatamente che qualcosa nel mio inconscio stava cambiando.

È stato come se ad un tratto mi fossi risvegliata dal coma in cui ero precipitata il giorno dell’incidente di Davide.

Corsi da lui in albergo, ancora profondamente emozionata, per raccontargli quanto era accaduto, manifestandogli la voglia di diventare anch’io come quegli atleti.

Volevo assolutamente emulare quelle gesta, credendo che se fossi diventata un “supereroe”, era così che vedevo loro, sarei stata in grado di affrontare qualsiasi difficoltà.


È stato questo per me l’inizio di una nuova vita.


Inizialmente non fu semplice, c’era ancora poco in Italia riguardo a questa disciplina, quindi ho dovuto allenarmi da sola, superando tutti i miei sensi di colpa per il tempo che dedicavo agli allenamenti, che rubavano inevitabilmente spazio al prendermi cura di Davide.


Nonostante facessi di tutto per sottrarre a lui meno tempo possibile, mi faceva comunque pesare il fatto che, a causa dei miei allenamenti, non fossi al massimo delle mie energie per potermi occupare di lui.


Mi ero fatta sopraffare dalla malattia e dalla disabilità di mio marito, annullandomi per lui, e per la prima volta dopo tanto tempo,, volevo prendermi cura di me stessa, senza per questo trascurare la nostra coppia.


Davide temeva che potessi lasciarlo per tornare alla mia vita normale per dedicarmi completamente al triathlon.


Pian piano, però, vedendo che quella era un’attività che mi dava una nuova energia, quella che pensavo di aver perso per sempre, anche lui comprese che quel che stavo facendo era importante per entrambi e che tutta quella voglia di vivere non poteva che far bene al nostro rapporto, messo a dura prova, per troppo tempo, dalla sua disabilita.


Oggi siamo una coppia come tante altre, che lascia ampio margine agli imprevisti, perché come ci ha insegnato la nostra esperienza, non bisogna mai programmare nulla.

Davide e Sabrina


Condividiamo la preoccupazione di non essere molto d’aiuto per i nostri genitori che con l’avanzare degli anni, cominciano ad aver bisogno di sostegno, ma nonostante tutto cerchiamo comunque di esserci anche per loro.


Abbiamo fondato la “Race Across Limits ODV”, una onlus, di cui entrambi siamo fieri, avente come obiettivo quello di supportare, informare, sostenere i caregivers e tutelarne il benessere fisico e mentale, affinché possano continuare a prendersi cura di chi sta loro a cuore, senza per questo dover rinunciare a sé stessi.


La disabilità per noi è diventata un punto a favore, non è un handicap, né una mancanza, ma qualcosa in più che ci ha arricchito.

Abbiamo preso un cucciolo di labrador e con lui sto facendo il corso di soccorso cinofilo in acqua.


Mi piace pensare alla nostra vita come ad un fantastico puzzle colorato, nel quale cercare di incastrare tutto al meglio, per pensare al presente e poco a ciò che sarà.


Sebbene prendersi cura di un proprio congiunto, permettendogli di riprendere in mano la propria vita, sia una cosa onorevolissima, che non porta like, ma arricchisce, facendoci conoscere realtà di cui prima si ignorava l’esistenza, è altrettanto importante non trascurare se stessi, perché solo prendendosi cura di sé, si può essere di concreto aiuto ai nostri cari.


Aiutare gli altri, contribuisce a dare un senso a quanto ci accade.


È questa la ragione che, nel corso di questi ultimi anni, mi ha spinto a ricercare il sostegno di altri caregivers, ma non ho mai trovato nessuno che volesse condividere con me il suo dolore, precludendo a loro e agli altri la possibilità di alleggerire quel fardello che, quotidianamente, ci portiamo sulle spalle.


Sabrina e Davide, immaginavano il loro futuro con poche nuvole all’orizzonte, ma un imprevisto li ha fatti precipitare vertiginosamente nel vortice oscuro della disperazione.


Un tunnel buio, dal quale sono riemersi, con la forza di riscrivere, con colori diversi, un altro capitolo della loro storia.


L’alba di una nuova vita, vissuta nella consapevolezza di un presente che è rinascita.

Mirella Madeo

Giornalista pubblicista ed Avvocato, disabile. Ho 50 anni e vivo a Ravenna.

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